di Davide Canevari
Maglia nera, Cenerentola d’Europa, una nazione che arranca, meno investimenti, meno addetti, meno laureati... Anche in questo primo scorcio di 2012, le pagine dei quotidiani continuano a descrivere l’Italia che fa ricerca con toni che oscillano tra il rassegnato e il catastrofico. Ma davvero la cultura e la pratica della R&S sono cadute così in basso nel Bel Paese? O c’è anche dell’altro, oltre i luoghi comuni che ci vorrebbero escludere a priori dai virtuosi che sanno fare vera innovazione?
Giusto un anno fa ABB – multinazionale leader nelle tecnologie per l’energia e l’automazione – nel lanciare a livello mondiale l’innovativo sistema di controllo distribuito (DCS) SymphonyTM Plus, aveva sottolineato l’importante ruolo svolto dal centro di sviluppo italiano, accanto ai ricercatori statunitensi, tedeschi e indiani (vedi Nuova Energia 1 |2011 e 3 |2011). Dunque la ricerca tricolore non vive solo di lacrime e sangue, per abusare di un’espressione già troppo abusata! Nuova Energia ha chiesto una conferma a Marco Sanguineti, responsabile programmi di R&D sull’automazione della power generation di ABB.
“Credo che la risposta – precisa Sanguineti – andrebbe divisa in due. È vero, ci sono gruppi di ricerca o singoli ricercatori italiani realmente in grado di fare innovazione di qualità, ai quali certo non mancano idee, creatività, preparazione. Detto questo, sono innegabili anche le criticità del contesto economico, le difficoltà finanziarie, la riduzione degli investimenti”.
“Così – prosegue Sanguineti – le aziende (non solo quelle medio-piccole) che impiegano capitali propri e hanno un orizzonte essenzialmente nazionale, tendono a subire l’andamento dell’economia del Paese. Pur avendo magari una unità di R&S, finiscono per arrancare e per ridurre le risorse destinate all’innovazione. Il discorso cambia per le società, i gruppi, gli stessi network universitari, che hanno sviluppato una rete di rapporti che va al di là del mercato nazionale. In questo caso le opportunità non mancano e le nostre competenze trovano sbocchi e riconoscimenti”.
Nel concreto, proviamo a calare il discorso sull’esperienza del vostro gruppo di lavoro genovese che ha collaborato alla realizzazione di Symphony Plus.
**Dai colleghi stranieri abbiamo ottenuto un chiaro riconoscimento professionale. Hanno capito che avevamo qualcosa da dire, hanno compreso che ci eravamo guadagnati sul campo un buon livello di competenza e quindi ci hanno dato ascolto. In noi – e questo, più in generale, è un pregio della ricerca Made in Italy – hanno apprezzato anche la creatività, il bagaglio umano e la capacità di mantenere un rapporto diverso con gli esponenti di altre nazioni con le quali abbiamo collaborato. Stati Uniti e Germania tendono a porsi da leader, meno aperti di noi al dialogo e al confronto. In una comunità di R&S, che sempre di più sta coinvolgendo anche nazioni emergenti quali India e Cina, la propensione ad essere più flessibili, più aperti, per certi versi più umani, diventa una carta vincente. Da 25 anni lavoro in questo ambiente e ho sperimentato personalmente che anche le strutture meglio qualificate e organizzate non possono più fare a meno della creatività e del fattore umano.
La tecnologia Symphony Plus nasce proprio dalla collaborazione tra quattro diversi approcci alla ricerca: tedesco, americano, italiano e indiano. Quali sono stati i punti di forza espressi da ciascun team?
Sicuramente, in questa specifica esperienza, gli Stati Uniti hanno avuto dallo loro parte la storia. Sono stati i primi, fin dagli anni Settanta, a sviluppare questi sistemi di controllo e hanno quindi accumulato un’esperienza unica. Nei tedeschi ha prevalso il loro tipico approccio strutturato all’ingegneria, che non vuole lasciare niente al caso. Questa scelta permette di guadagnare in termini di ottimizzazione (non ci sarà nessuna sorpresa...) ma inevitabilmente fa perdere qualcosa sul lato della flessibilità. L’India è il nuovo e il giovane, la freschezza. L’età media dei lavoratori indiani, anche con elevati livelli di competenza, è molto inferiore di quella che si riscontra in Europa o anche negli States. E i costi del lavoro sono tutt’oggi sensibilmente inferiori. L’Italia ha fatto da collante e da lievito.
E non è un ruolo da poco!
È stato, per così dire, l’ingrediente fondamentale che ha permesso di far convivere e cooperare universi profondamente diversi tra loro. In più, come già accennato, ha fornito lo spunto creativo e ha permesso di superare alcune inerzie. In un mercato che è tipicamente conservativo e che guarda con diffidenza e sospetto i cambiamenti, abbiamo dato un contributo prezioso per “uscire dagli schemi” e per ottenere, in fin dei conti, un prodotto ancora più innovativo.
Per quella che è stata la sua esperienza, come è valutato dai colleghi stranieri l’operato dei ricercatori italiani?
Torno su un concetto espresso all’inizio: se hai qualcosa di importante da dire (all’estero) chiunque ti sta a sentire volentieri. Se, invece, pretendi di parlare solo sulla base di posizioni acquisite, per noi italiani diventa tutto più difficile e prevale l’immagine non sempre positiva del Sistema Paese; quindi la mancanza di rigore, di affidabilità, di precisione. Insomma, come italiani spesso partiamo da meno uno, ma quando riusciamo a superare il gradino dell’inerzia, gli altri riescono addirittura a guardarci come punto di riferimento. È la solita storia delle due Italie. Una pubblica che si porta dietro un’immagine negativa e una privata che punta in tutt’altra direzione.
Quali spunti potrebbe trarre la ricerca pubblica italiana dall’esperienza condotta da aziende private come la vostra?
La ricerca pubblica è ancora oggi eccessivamente influenzata da logiche politiche di breve termine che ne limitano le potenzialità, l’orizzonte temporale e una visione strategica di più ampio respiro. Può sembrare assurdo, ma è certamente più autonoma e meno sottoposta a condizionamenti la ricerca privata. Spunti? Svincolare il più possibile la ricerca dalle logiche politiche e di potere. Stimolare una vision di più lungo periodo per garantire una posizione di leadership al Sistema Italia e un futuro migliore e sostenibile al Paese. Ma anche questo ci riporta alla considerazione iniziale sulla necessità di svincolarsi dai condizionamenti.
Da qualche anno sembra che Genova stia diventando una delle capitali della ricerca energetica in Italia. Che cosa sta succedendo alla città della Lanterna?
In realtà non stiamo scoprendo niente di nuovo. Genova è sempre stato un importante polo della ricerca, ma su questa sua caratteristica non ha mai saputo fare marketing, forse anche per il congenito minimalismo di noi genovesi. Sono alcuni decenni che aziende, università e istituzioni fanno innovazione di eccellente livello – o almeno di livello analogo ad altre realtà più famose e titolate – sempre però mantenendo un basso profilo, guardando alla concretezza più che all’immagine. Adesso qualcosa sta cambiando nel nostro modo di porci, e si accendono i riflettori su qualcosa che, comunque, già c’era e che continua ad esserci.
È ottimista per il futuro della ricerca italiana?
Molti colleghi di lavoro mi considerano un pessimista. Tuttavia, pensando a come l’Italia è già più volte uscita da situazioni critiche, mi sento comunque tranquillo. Forse non ottimista, ma sereno sì.
|