di Paolo Chiesa e Paolo Iora| Politecnico di Milano, Università di Brescia
Come noto, l’European Emission Trading Scheme (EU-ETS) rientra tra i principali sistemi individuati dal Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni di gas serra. Basato sul modello cap and trade, prevede che venga imposto un limite (cap) alle emissioni annue di CO2, definito sulla base di un determinato numero di quote assegnate agli impianti, che divengono oggetto di negoziazione (trade) in uno specifico mercato. Si tratta di un meccanismo virtuoso che favorisce l’uso di combustibili a basso contenuto di carbonio (ad esempio, metano rispetto al carbone) e, nel caso di generazione elettrica, premia gli impianti ad elevato rendimento. È tuttavia un sistema relativamente recente (entrato in vigore nel 2005) e anche per questo presenta alcuni aspetti critici per i quali sono auspicabili alcune correzioni che ne migliorino l’efficacia. Questo articolo si propone di individuare alcuni punti deboli del meccanismo attuale e proporre alcune soluzioni che contribuirebbero, per opinione di chi scrive, ad un suo perfezionamento.
La critica principale che si può muovere è che al momento solo alcuni settori sono inclusi in questo provvedimento (l’elenco aggiornato è consultabile nella Direttiva 2009/29/CE del Parlamento Europeo, che modifica la precedente Direttiva 2003/87/CE). Ne risultano, ad esempio, gravati gli impianti di generazione elettrica ai quali, come già accennato, vengono assegnate per l’anno di esercizio un determinato numero di tonnellate di CO2 (che si possono correlare direttamente al combustibile bruciato). Per cui se le quote emesse eccedono quelle assegnate, le mancanti - messe a disposizione da chi si è mantenuto al di sotto del quantitativo attribuitogli - possono essere acquistate nell’apposito mercato.
Evidentemente l’esborso necessario per l’acquisto del diritto ad emettere va ad aggiungersi ai costi variabili di produzione dell’impianto medesimo, con conseguente aumento del costo medio del kWh prodotto. In ultima analisi, questo porta ad un aumento delle tariffe dell’energia elettrica, con la conseguenza di far ricadere indiscriminatamente gran parte dell’onere dell’emission trading sulle spalle dei consumatori di energia elettrica.
Se questa circostanza trova una sua giustificazione nel fatto che il settore termoelettrico è tra le principali sorgenti di emissioni di CO2, non pare vi sia ragione per escludere altri ambiti, altrettanto responsabili dell’emissione di gas climalteranti. Tra questi si possono immediatamente individuare l’autotrazione, le cui emissioni di CO2 sono legate alla combustione degli idrocarburi usati come carburanti, e il riscaldamento degli edifici che utilizza il calore liberato dalla combustione - nel migliore dei casi - di metano in caldaie. Tuttavia, il modo in cui superare questo limite dell’attuale sistema e ottenere tecnicamente il coinvolgimento di questi settori nel meccanismo dell’emission trading può risultare un problema di non facile soluzione. Senza la pretesa di offrire una risposta definitiva, nelle righe che seguono proviamo ad immaginare come si potrebbe concepire un sistema orientato in questa direzione. Si può partire da una semplice considerazione: ogni soggetto è necessariamente responsabile di una certa quantità di emissioni di CO2, che tuttavia può subire variazioni anche significative in relazione ad abitudini e stili di vita adottati sulla base di scelte individuali.
Calando nel concreto questa affermazione si può osservare, ad esempio, che le emissioni di CO2 legate agli spostamenti variano a parità di distanza percorsa in funzione del tipo di mezzo di trasporto utilizzato, e precisamente decrescono passando da una macchina di grossa cilindrata ad un veicolo ibrido, a mezzi di trasporto pubblici o al limite alla bicicletta, qualora il tragitto lo consenta. Allo stesso modo le emissioni di CO2 legate al riscaldamento degli edifici cambiano sensibilmente in funzione della tipologia e dell’efficienza del generatore di calore e del grado di isolamento del fabbricato; lo stesso dicasi della CO2 legata ai consumi elettrici, che a parità di servizio reso all’utente, dipendono dalla tipologia dei dispositivi impiegati (come ad esempio elettrodomestici e lampadine a basso consumo in alternativa a componenti tradizionali).
Ne consegue che esistono ampi margini entro i quali il singolo può agire a favore della riduzione dell’effetto serra, ed è pertanto auspicabile un meccanismo in grado di premiare le scelte virtuose operate in questa direzione. In concreto, questo si potrebbe realizzare attribuendo direttamente le quote di emissione a ciascun individuo. Nel qual caso si avrebbe che, nel limite del valore assegnato, l’utente pagherebbe il solo prezzo della commodity responsabile dell’emissione di CO2 (nel caso: energia elettrica, combustibile per il riscaldamento e combustibile per il trasporto); al di sopra del limite, il prezzo della commodity sarebbe maggiorato in ragione dell’esternalità dovuta alla CO2 emessa. Questo sistema potrebbe inoltre prevedere la possibilità dello scambio di quote, creando di fatto un mercato delle emissioni simile a quello esistente, ma proiettato sull’utente finale.
Il vantaggio rispetto alla situazione attuale sarebbe duplice: si estenderebbe la responsabilità alle emissioni di CO2 anche a settori finora esentati (trasporti e riscaldamento degli edifici, per citare i più rilevanti); si indurrebbero comportamenti virtuosi nell’utente finale, che vedrebbe premiate in maniera diretta le azioni volte alla limitazione delle emissioni. È evidente che per uscire dal limbo delle buone intenzioni e giudicare la possibile messa in pratica di un sistema di questo tipo, è necessario operare alcune valutazioni quantitative. In particolare, è necessario stabilire la quota limite di riferimento da assegnare pro capite (cioè il valore che - se superato - determina l’applicazione del meccanismo sanzionatorio di sopra descritto). Consapevoli che questa operazione richieda ben più attente valutazioni, consideriamo in via preliminare queste condizioni di riferimento:
► consumo annuo pro capite di energia elettrica pari a 1.140 kWh, valutati come rapporto tra i consumi totali domestici nell’anno 2008, pari a 68,4 TWh (fonte Terna), e la popolazione italiana residente (60 milioni);
► spostamenti in automobile assunti indicativamente pari a circa 12.000 km/anno per persona, valutati come rapporto tra il totale della domanda di mobilità su autoveicoli registrata nel 2008 (720 miliardi di passeggeri-km, fonte Commissione europea) su una popolazione di 60 milioni;
► fabbisogno specifico annuo di energia termica della propria abitazione pari a 80 kWh/m2. Tale valore è riferito, a puro titolo esemplificativo, ad un edificio di classe C in zona climatica E, come definito dalla Deliberazione Giunta Regionale 26 giugno 2007 n. 8/5018 della Regione Lombardia;
► fabbisogno pro capite di acqua sanitaria di 44 litri al giorno, determinato sulla base della normativa UNI TS 11300-2 considerando un appartamento di 120 m2 abitato da quattro persone.
È immediato determinare le emissioni di CO2 associate a questi valori di riferimento. Per quanto riguarda i consumi di energia elettrica, considerando 435 g di CO2 emessi per ogni kWh elettrico (valore calcolato come rapporto tra le emissioni totali del settore termoelettrico italiano nel 2008, 138,8 milioni di tonnellate, e i consumi sulla rete nazionale, 319 TWh, fonte Terna), si ottengono 0,50 tonnellate di CO2/ anno. Gli spostamenti in automobile, ipotizzando emissioni medie di 150gCO2/ km, (valore tipico di vetture di media cilindrata) e un indice di occupazione di 1,68 passeggeri per veicolo (fonte EEA), sono responsabili per 1,07 tonnellate di CO2 per persona l’anno. Per l’emissione dovuta al riscaldamento ipotizziamo che il citato appartamento di 120 m2 abitato da quattro persone sia dotato di un generatore di calore alimentato a metano avente un rendimento medio stagionale dell’80 per cento: ne risulta una produzione pro capite di 0,59 tonnellate di CO2 l’anno. Infine 0,14 tonnellate/anno di CO2 pro capite si possono attribuire ai consumi di acqua calda sanitaria, ipotizzando che venga prelevata dall’acquedotto a 10 °C e riscaldata a 40 °C tramite la stessa caldaia utilizzata per il riscaldamento. In totale dunque, l’individuo mediamente virtuoso qui considerato, è responsabile dell’emissione di 2,30 tonnellate di CO2 l’anno.
Ora, se ipotizziamo una quotazione della CO2 pari a 20 euro a tonnellata, il budget corrispondente al quantitativo assegnato è circa 46 euro. Ne deriva che un emettitore nullo di CO2, qualora passasse in essere questo meccanismo, potrebbe recuperare questa somma annualmente, cedendo le proprie quote in una opportuna piattaforma di scambio. Detto incidentalmente, un emettitore virtualmente nullo di CO2 è un individuo senza dubbio abbastanza singolare, ma non del tutto improbabile. Sarebbe tale chi abitasse un edificio ben isolato termicamente e asservito da fonti rinnovabili, e riluttante all’uso dell’automobile.
Un altro aspetto non secondario è l’entità della penalità a cui andrebbe soggetto chi supera la soglia assegnata. Per brevità risparmiamo al lettore i passaggi e ci limitiamo a riportare i risultati (sempre nell’ipotesi di valutare l’esternalità della CO2 pari a 20 euro/tonnellata): il consumatore verrebbe a pagare 0,87 centesimi di euro in più per il kWh elettrico (più 5,1 per cento rispetto ad un valore di riferimento di 17 centesimi di euro/ kWh), 4,7 centesimi di euro in più al litro di carburante (3,4 per cento rispetto ad un valore di riferimento di 1,4 euro/litro), 3,9 centesimi di euro in più al m3 di gas (5,2 per cento in più rispetto ad un valore di riferimento di 75 centesimi di euro/m3).
Vista l’entità di queste cifre, bisogna riconoscere che un potenziale guadagno di 46 euro l’anno, cifra modica anzichenò, non sia verosimilmente sufficiente a scatenare una corsa alle quote emissione di CO2. È bene però sottolineare che l’entità dei numeri citati discende direttamente dall’ipotesi di aver valutato il costo dell’esternalità per la CO2 (20 euro a tonnellata) sulla base dei valori del mercato EU-ETS attualmente in vigore. D’altra parte, una più elevata valorizzazione della tonnellata di CO2 che tenga conto ad esempio dei costi che la collettività sostiene per incentivare l’elettricità da fonti rinnovabili e i biocarburanti, potrebbe essere presa in considerazione per generare maggiori prospettive di remunerazione.
Un ulteriore aspetto, non certo secondario, riguarda i possibili ostacoli pratici legati alla messa in funzione del sistema. Tra le possibili modalità attuative, illustriamo brevemente le due che a nostro giudizio meriterebbero attenzione.
La prima consiste nell’applicare un’imposta al prezzo delle commodity energetiche indipendentemente dai consumi (una sorta di carbon tax), e contestualmente elargire una somma di denaro pro capite - o più verosimilmente una detrazione fiscale di pari importo - che risarcisca di questo balzello aggiuntivo il soggetto che si trovi a consumare esattamente l’equivalente delle quote assegnate. In questo modo, senza bisogno di effettuare verifiche a consuntivo, si andrebbe a configurare per il soggetto in questione un potenziale ricavo o costo aggiuntivo, in relazione a quanto le sue emissioni si allontanino da quelle assegnategli. Si tratta certamente di un meccanismo di facile implementazione, tuttavia l’effetto congiunto di una relativamente modesta imposta e lo sgravio fiscale compensativo fruibile una volta l’anno, potrebbe risultare un richiamo troppo debole verso comportamenti più attenti alle problematiche ambientali, mancando pertanto il principale obiettivo dell’iniziativa.
La seconda soluzione, un poco più ardita ma sicuramente di maggiore efficacia, consiste nell’introdurre una CO2-card nominativa sulla quale vengono annualmente caricate le quote di anidride carbonica assegnate. Queste andrebbero a consumarsi progressivamente in seguito all’utilizzo delle commodity (in prima istanza: energia elettrica, combustibile per il riscaldamento, carburante per l’automobile). Il soggetto che dovesse esaurire le quote sarebbe così tenuto ad effettuare una ricarica - proprio come si usa fare con i telefoni cellulari - per poter continuare ad usufruire dei servizi energetici citati. Diversamente, le quote assegnate e non consumate potrebbero a fine anno essere convertite nelle somme di denaro corrispondenti, in questo caso a vantaggio del soggetto virtuoso. Si può intuire che questo meccanismo avrebbe il pregio di produrre una maggiore sensibilizzazione al problema delle emissioni climalteranti: la necessità di effettuare la ricarica una volta superate le quote concesse, oltre a rappresentare un deterrente di natura economica, dovrebbe richiamare l’attenzione verso una maggiore responsabilità riguardo i propri comportamenti in materia di consumi energetici.
L’ultima considerazione riguarda la destinazione dei proventi derivanti dall’introduzione di questo meccanismo. Al riguardo pare naturale indicare come soluzione l’acquisto annuale delle quote di emissione di CO2 dovute al mancato raggiungimento da parte dell’Italia degli obiettivi previsti dal Protocollo di Kyoto (e che al momento gravano prevalentemente sul settore di generazione termoelettrica), oppure il finanziamento di iniziative aventi come oggetto la riduzione di gas serra, tra cui è immediato individuare il sostegno verso le energie rinnovabili e le più varie iniziative a favore del risparmio energetico.
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