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Quest: "Pubblica, sinergica, ad alto impatto: ecco la ricetta per la ricerca europea" Stampa E-mail

Quest: “Pubblica, sinergica, ad alto impatto: ecco la ricetta per la ricerca europea”

di Carolina Gambino

LA RICERCA EUROPEA È ALL’ALTEZZA DEL COMPITO A CUI
È CHIAMATA. NON MANCANO I CERVELLI E LA RISTRETTEZZA DELLE RISORSE NON DEVE SPAVENTARE: FARE BENE CON MENO SI PUÒ, ANZI DIVENTA UN DOVERE NEI MOMENTI DI CRISI. ECCO LA RICETTA DI STEPHEN QUEST, DIRETTORE GENERALE DEL CENTRO COMUNE DI RICERCA EUROPEO


Parlare con qualcuno chiamato a tenere le redini di un ente che impiega 2.800 persone dislocate in 50 strutture non può che ispirare un po’ di sano timore reverenziale. Considerando che il compito, già di per sé complesso, è reso quasi titanico dal contesto socioeconomico e dall’urgenza di accelerare sulla transizione impiegando risorse che vanno ben indirizzate, ben gestite e messe a frutto per produrre risultati concreti, possibilmente in tempi stretti.

Non sembra però per niente intimorito Stephen Quest - al timone del JRC
dal 2020 - che nella chiacchierata densa di contenuti ma invero decisamente piacevole concessa a Nuova Energia pare avere le idee chiarissime.
La ricerca europea è all’altezza del compito che è chiamata a giocare - puntellare l’operato delle istituzioni sulla strada per la transizione - e la scarsità di risorse non deve spaventare: fare bene con meno si può, anzi diventa un dovere nei momenti di crisi.

Come riuscirci? Favorendo il lavoro di squadra di ricercatori e policymaker, per una ricerca di alto impatto, e per una politica che dialoga e comprende, che guarda avanti solo dopo aver soppesato scientificamente i successi e gli insuccessi della strada già percorsa. Con capacità di autovalutazione e
obiettività. È da qui che parte la nostra intervista con il direttore del JRC.

La misurazione e la verifica dei risultati è uno dei pilastri del metodo scientifico: aggiustare la rotta o avanzare più speditamente verso i propri obiettivi è impossibile senza sapere a che punto si è arrivati. Crede che la capacità dell’UE in questo ambito sia abbastanza robusta?
L’Unione Europea ha una storia piuttosto solida quanto a capacità di valutare l’efficacia delle proprie politiche, grazie alla cosiddetta Better Regulation Agenda (Agenda Legiferare meglio), che è lo strumento dell’UE per migliorare la qualità della legislazione lungo tutto il ciclo di vita di una politica, dalla fase preparatoria all’implementazione, fino alla valutazione. Ma prima di apportare qualsiasi cambiamento dobbiamo trarre insegnamento da ciò che ha funzionato bene – o meno bene – nell’attuazione e applicazione delle regole sul campo.

Quale può essere in questo senso il contributo del JRC?
Il Joint Research Centre è coinvolto molto attivamente in tutti gli aspetti dell’Agenda. Nello specifico, nel 2016 ha avviato il Competence Centre on Micro-economic evaluation (CC-ME) allo scopo di rafforzare il processo politico dell’Unione attraverso la valutazione del nesso di causalità e l’analisi microeconomica basata sui dati. Negli ultimi anni, il Centro di competenza ha fornito supporto alla Commissione su un’ampia gamma di ambiti politici, dalla Politica Agricola Comune passando per il roaming della telefonia mobile, fino all’equa retribuzione. Questa è una delle nostre attività trasversali, ma forniamo anche supporto più mirato a temi specifici.

Ci può fare qualche esempio di come fornite sostegno alla politica?
Ricorderete lo scandalo ribattezzato Dieselgate, in cui si scoprì che una importante casa automobilistica immetteva sul mercato delle automobili diesel dotate di sistemi illegali che permettevano la manipolazione dei gas di scarico. Dopo questo episodio, l’Unione Europea ha adottato nuove norme che hanno notevolmente inasprito il processo di approvazione e la vigilanza sul mercato dei veicoli a motore. In UE, prima che un nuovo modello possa essere commercializzato, il produttore deve sottoporlo al processo di omologazione, per certificare che il prototipo soddisfi tutti i requisiti di sicurezza, ambientali e di produzione. Dal 2020 inoltre il JRC si è occupato di vigilanza di mercato per conto della Commissione, verificando che i veicoli fossero conformi agli standard UE, e ha costruito due nuovi impianti di test a questo scopo.
Il JRC svolge verifiche di conformità indipendenti relative sia agli obblighi di sicurezza che a quelli sulle emissioni. Il lavoro svolto ha contribuito a ridurre al minimo casi come quello del Dieselgate e ha reso possibile organizzare campagne di richiamo e imporre sanzioni ove necessario.

Siete al servizio di entrambe le sponde dell’interfaccia scienza-politica, potenziando le capacità dei ricercatori di farsi ascoltare e aiutando i decisori a utilizzare al meglio l’evidenza scientifica nella definizione delle strategie. Quale di questi due compiti le sembra il più arduo?
Entrambi gli aspetti del lavoro del JRC presentano delle sfide uniche. Spesso il problema delle risorse mette molto sotto pressione i decisori politici, che non hanno tempo di maturare un’opinione critica sulle evidenze che si trovano a utilizzare. Nella pratica, il lavoro che facciamo non si prefigge di potenziare le competenze di un politico fino a livello di uno scienziato - affinché possa valutare la bontà delle evidenze – ma di renderlo in grado di fare allo scienziato le domande giuste. Naturalmente le evidenze scientifiche sono solo uno dei fattori di cui i decisori devono tener conto nello sviluppo delle politiche: ci sono le istanze dei diversi stakeholder, oltre a considerazioni di carattere etico e di fattibilità politica. Bilanciare questi diversi input in maniera trasparente è molto complesso. Per migliorare la capacità dei professionisti della politica di approntare politiche basate sulle evidenze, pertanto, non basta semplicemente formarli a interpretarle meglio.

C’è poi l’aspetto della certezza. Raramente la scienza fornisce evidenze certe...
Eppure, nel dibattito politico i vari schieramenti tendono spesso ad affermare che «la scienza ha provato» o che «la scienza dimostra chiaramente» che il loro punto di vista è quello in grado di apportare i maggiori benefici alla società. Oppure, al contrario, che «la scienza non ha ancora chiarito definitivamente» una determinata questione. Sebbene vengano presentate come dispute pertinenti alla sfera del sapere, queste diatribe vengono sovente interpretate come un conflitto di valori. I decisori devono accettare che la scienza non fornisce certezze, e devono imparare a distinguere tra le conclusioni che derivano dalle evidenze disponibili e quelle che invece affondano le radici nelle credenze fondamentali di un sistema di valori. Per chi fa politica l’incertezza della scienza diventa un problema anche di comunicazione, poiché nel dibattito pubblico le sfumature possono andare perdute o venire fraintese.
Pertanto, c’è una sorta di tensione intrinseca tra il saper comprendere le sfumature dovute all’incertezza scientifica e il comunicarle al pubblico nel momento in cui si forniscono le motivazioni alla base delle proprie decisioni.

Per i ricercatori, d’altro canto, comunicare con i rappresentanti del mondo politico è una strada in salita.
Certo, poiché richiede abilità comunicative efficaci, doti persuasive e capacità narrative, competenze che tradizionalmente non vengono enfatizzate o sviluppate nei percorsi di apprendimento a indirizzo scientifico. C’è però anche un divario culturale. Il mondo della scienza e quello della politica operano con orizzonti temporali diversi, premiano esiti diversi e usano linguaggi differenti. Gli scienziati sono educati a essere cauti, a utilizzare le sfumature, ad attribuire valore alla precisione e all’accuratezza, mentre chi fa politica spesso ha bisogno di suggerimenti chiari, non ambigui su come agire, in tempi brevi.
Colmare questo divario richiede agli scienziati sforzi significativi e grande capacità di adattamento. Nel dibattito politico, un singolo elemento scientifico può essere interpretato in modo diverso a seconda del contesto, dell’ideologia o degli interessi in gioco. Negli scienziati, istruiti a guardare alle evidenze in modo oggettivo e più fisso, ciò può creare frustrazione e disillusione.

Alla fin fine, quale delle due sponde del ponte tra scienza e politica è più difficile da costruire?
Dipende in ultima analisi dal peso che queste due sfide assumono l’una rispetto all’altra. In definitiva, rafforzare il ruolo dei politici è più impegnativo poiché sono figure soggette al giudizio severo dell’opinione pubblica e operano con scarse risorse. Allo stesso tempo però, farlo può rappresentare una leva politica più incisiva se consideriamo la posta in gioco e la quantità di decisioni che un politico deve prendere. Ciò detto, non basta sviluppare le capacità su entrambe le sponde del ponte. Enti come il JRC, che promuovono la produzione di ricerche orientate alla politica svolgono un ruolo importante, agendo da traduttore tra un mondo e l’altro. [...]


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